Fotografa e avvocato, Joan Sinclair ha trascorso un anno in Giappone per scoprire il mondo super esclusivo dei Sex Club. Il suo reportage lo ha raccolto nel libro Pink Box. L’abbiamo intervistata. Ecco cosa ci ha raccontato della sua esperienza
Benvenuti nella Sex Fantasy Island
Esiste un luogo, nel mondo, dove alcune delle fantasie erotiche più comuni possono trasformarsi in realtà. Una “fantasy island” del sesso, dove si realizzano sogni hard e giochi di trasgressione e dove anche perversioni insolite possono essere accontentate senza sguardi indiscreti. Previo pagamento, s’intende. Perché tutto ciò accade nei sofisticatissimi e intriganti Sex Club giapponesi, luoghi regolarmente frequentati da manager, professionisti, clienti business, che contribuiscono a rendere l’industria del sesso la seconda del Paese per volume d’affari dopo quella delle automobili. Ecco, quindi, finti coffee-shop dove le cameriere girano nude sotto il grembiule (e su pavimenti a specchio), riproduzioni di vagoni della metropolitana affollati di studentesse, stanze da bagno versione harem, camere-aereo con hostess in divisa per un eros “ad alta quota”. E tante, tantissime altre ambientazioni e archetipi sessuali destinati a incontrare l’immaginario erotico maschile. Per la prima volta, un occhio occidentale è riuscito a entrare e fotografare il mondo esclusivissimo dei Sex Club. Joan Sinclair, fotografa e avvocato di San Francisco, ha infatti trascorso un anno nel Paese del Sol Levante per testimoniare cosa davvero succede dentro i celebri club. Il risultato del reportage è il libro Pink Box. Ecco cosa racconta della sua esperienza.
Com’è nata l’idea di fotografare i Sex Club?
«L’industria del sesso è la seconda tra le più grandi del Paese, dopo quella delle automobili. E’ un’importante parte della cultura giapponese che viene ignorata. Dieci anni fa, quando insegnavo inglese a Tokyo, ho captato un discorso su questi strip club e un amico mi portò a fare un giro di Kabukicho, il distretto a luci rosse più grande della città. Rimasi di stucco! C’erano club a forma di treno con donne pendolari “palpeggiabili”. E ospedali finti, dove i clienti si sdraiavano in un letto per essere accuditi da infermiere prive di lingerie. C’erano uffici per le molestie sul lavoro, dove gli uomini potevano abbassare gli slip alle “segretarie”. Ritornai in California e inizia la mia carriera di avvocato. Ma non ho mai dimenticato questi club. E a distanza di dieci anni sono tornata per realizzare questo reportage».
Fotografa, donna e Occidentale: non deve essere stato facile per lei introdursi in certi luoghi…
«Infatti non lo è stato. La privacy delle donne che vi lavorano è difesa al massimo. In ogni caso, ho tentato di imparare lo slang del giro e di avvicinarmi attraverso più direzioni. Ho cercato di conoscere i gestori, i clienti, le donne e anche chi si occupava della pubblicità. In Giappone questi club sono un business molto serio, c’è una grande concorrenza, si spendono montagne di soldi per pubblicità in riviste patinate che altro non sono che una guida all’industria del sesso».
Com’è riuscita alla fine a convincere i gestori?
«Il più delle volte riuscivo a entrare insieme a un cliente fisso e una delle ragazze. Indossavo un tailleur e avrei comunque portato regali e una business card. In Giappone, la presentazione formale da parte di qualcuno che è già introdotto è molto importante, anche perché quasi nessuno di questi club consente l’ingresso a stranieri, neanche se parlano giapponese. Gli stranieri, secondo loro, non comprendono le regole, che sono effettivamente molte. Spaventano i clienti giapponesi. Si lamentano troppo. Non riescono a capirsi bene con le donne, quando queste non sono a loro agio. E poi potrebbero avere l’Aids».
Com’è possibile che in Giappone l’industria dell’eros sia così diffusa?
«Dipende da vari elementi: il fatto che sia un’industria vecchia di 400 anni, la mancanza di una filosofia cristiana, il bisogno di libertà in una società che ha vincoli molto stretti, l’enfasi sull’apprezzamento dei clienti, un insieme di leggi così complesse da rendere tale business virtualmente legale».
Cosa rende così popolari i travestimenti e le fantasy room?
«In Giappone, le uniformi scolastiche e aziendali sono ampiamente usate. Il livello sociale delle persone si individua al volo da ciò che indossano. Club come questi permettono di rompere le regole sociali, usando archetipi quotidiani che possono rappresentare dei “frutti proibiti”: la studentessa, la segretaria pendolare, la donna qualunque…».
Pink Box: perché ha scelto questo titolo per il suo libro?
«In Giappone, la parola “rosa” è un eufemismo commerciale per indicare il sesso, il corrispettivo giapponese del nostro “luci rosse”. Pink Box, in particolare, è una stanza da ballo privata nel retro di uno dei sex club più famosi di Osaka. Ho fatto una foto a due ragazze illuminate da una luce rosa dentro questa stanza. Era davvero bella, e così deciso di usarla per il titolo del libro».
(Pubblicato su Style.it, 2007 - Foto: Joan Sinclair - Green Gel Play, Osaka)